E la parola si fece fuoco
di Osvaldo Guerrieri
Richi Ferrero, il signor teatro
di Gian Luca Favetto
Dello Zoo, dello specchio e di altre cose
di Michelangelo Pistoletto
conversazione con Ruggero Bianchi e Cristina Natta-Soleri, Cittadellarte, Biella, ottobre 2000
La città delle muse
di Lucio Cabutti
Un cinema oltre la parentesi
di Stefano Della Casa
Invenzione e memoria: i Fuochi di Richi
di Mercedes Viale Ferrero
Se le idee sono luminose
di Sergio Jaretti
Un’esplorazione intorno all’idea di museo
di Andrea Terranova
Dialogo sul Gran Teatro Urbano
di Richi Ferrero con Ruggero Bianchi
E la parola si fece fuoco
di Osvaldo Guerrieri
Era il 1975 quando m’imbattei per la prima volta in Richi Ferrero. Faceva l’attore e con i compagni del Granserraglio rappresentava La Conquista del Mexico nel foyer del Teatro Nuovo di Torino. Quella era salvo errore un’opera seconda. Succedeva a Lo strano caso di Nancy Quike, e, come spesso accade con le opere seconde, non riusciva a sottrarsi agli sbandamenti, pareva dominata dalla pericolosa ansia della “buona riuscita”: cose che di solito, e in assenza di adeguata maturità e di disciplina tecnica, mettono a repentaglio anche il più ferreo dei progetti.
In effetti La Conquista del Mexico non fu memorabile. Il dialogo fitto e inerte, il disegno scenico così caotico nell’intreccio delle storie e delle sottostorie trascinavano verso il basso un’impresa che pure tentava di scardinare dall’interno i meccanismi del teatro tradizionale. Come sapete, gli anni settanta furono di fuga e di sfregio. Il cosiddetto teatro di cantina, suggestionato da Artaud, principe rauco della crudeltà, mirava alla irreversibile dissoluzione della parola. Nel suo silenzio estetico, o nel suono distorto che ne era la variante, o addirittura nel capovolgimento del senso, la nuova scena decretava il trionfo espressivo dell’immagine e del corpo. Il Granserraglio apparteneva a questa corrente sperimentale e, al tempo stesso, non mostrava di volervi confluire del tutto. Il semplice fatto che la parola, nella Conquista del Mexico, conservasse il suo valore comunicativo, persino grammaticale, era la prova di una rivoluzione desiderata, avviata, corteggiata, ma sottratta alle estreme conseguenze. L’impressione era che Ferrero, il regista Mariano Meli e tutti coloro che parteciparono all’impresa, più che distruggere, volessero reinventare la tradizione, aggiornarla, rivestirla di un abito contemporaneo.
I risultati furono quelli che ormai sappiamo. Ma ci fu qualcosa, allora, che colpì la mia immaginazione. La notai in Ferrero più che negli altri. Nelle parole e nei gesti fuori scena, mi parve di cogliere in lui una tensione febbrile, un tic visionario, un rovello artistico spinti a livelli straordinariamente acuti. In quel momento ebbi l’impressione che Ferrero andasse per conto proprio, credetti di capire che quell’attore smilzo e barbuto, dalla gestualità febbrile, si cercava. La Conquista del Mexico sembrava un pretesto, un puro accidente da cui lui poteva prescindere. In altre parole, non cercava uno spettacolo: cercava se stesso.
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Richi Ferrero, il signor teatro
di Gian Luca Favetto
Se già lo conoscete, le parole che seguono sono inutili. Se non lo conoscete, anche: perché lui vale più di queste parole. Ma io non l’ho qui in carne e ossa per farvelo incontrare, ho soltanto un alfabeto con vocali e consonanti da mettere in fila per provare a raccontarlo e restituirne un’impressione.
L’impressione che metto sulla carta comincia così: è un attore, un autore, un trattore che conduce visioni come aratri negli occhi del pubblico, un tiratore di spettacoli come stoccate, un usurpatore di realtà, un sabotatore di certezze, un coltivatore di provocazioni piantate un po’ qui e un po’ là per l’Italia, un collaudatore di follie, un simulatore, uno scandagliatore di buio che disarma con la luce, un rematore controcorrente a cui risulta semplice l’impossibile, un trovatore di robe e poesia, un divulgatore di progetti, è un uomo a ore, affittato ai sogni. Per conservare la rima dovrebbe chiamarsi Ferrore, invece un’inversione all’ultimo momento di due vocali lo ha ricondotto alla norma, a una tradizione piena della terra piemontese: così è Ferrero. Richi, di nome. Non è dato sapere se mai, un tempo, sia stato Riccardo. Non pare. Nemmeno per la madre. Comunque, non viene da pensarlo.
Quest’uomo qui, che ha fatto tutte le cose che ha fatto, e più di mille ancora ne ha immaginate e tutte potete leggerle nel volume che avete in mano , non può essere un Riccardo. È un Richi e basta. Ri chi? Ri cosa? Un Richi che osa. Che ha osato, ovunque e comunque, il teatro. In ogni momento. Anche parlando seduto in un bar davanti a un bicchiere di vino, rollando tabacco e pace. Naturalmente, su un palcoscenico. O sull’acqua di un fiume. Sulle facciate dei palazzi. Nel parco di una reggia. Nelle chiese, tra i banchi, mentre dialoga con le vecchie signore. In un museo. In una piazza. Perfino sott’acqua, dalle parti del Mar Rosso. In una foresta. A una festa di partito. Al fondo di un’autostrada. Dentro una fortezza. Dentro la Mole Antonelliana. Dentro l’amore, l’amore per il teatro e la teatralità, che altro non sono se non il gusto di mettere in forma contemporanea, presente, la voglia di comunicare e incontrarsi fra persone, godendo in comune per una parola, un gesto, uno sguardo, un applauso, un’azione, un ricordo. Il gusto di condividere uno spazio. E un tempo. Di partecipare ad una stessa forma, di essere insieme sulla stessa onda: chi dice parole di là e chi tace di qua, chi di là agisce e chi di qua guarda, chi ascolta e chi sente, siano di qua o di là non importa.
Partecipare a una stessa forma con qualcuno, essere insieme sulla stessa onda vuol dire viaggiare. Un lavoro teatrale è un viaggio. È un viaggio, perché costringe a spostarsi: gli attori, almeno in Italia, vanno di città in città, e la cosa si chiama tournée. Si sposta il pubblico, che a una certa ora esce di casa e s’incammina. Anche le prove sono un viaggio, una scoperta, roba da Cristoforo Colombo e David Livingstone. Quando incomincia lo spettacolo, poi, si entra tutti insieme in un’altra dimensione, ci si sposta in un altro luogo, in un’altra realtà. È per viaggiatori, il teatro, per chi resiste, non rinunciando ad essere e a sentirsi nomade nel deserto del tempo.
Se questo è vero, ci sono alcune parole che ben possono, senza definirlo, riassumere l’uomo di teatro, soprattutto uno come Richi Ferrero. Sono comparse più di una dozzina di anni or sono. Le ha scritte uno dei grandi pensatori di questo secolo, appartato, molto amato da pochi, un raro maestro, Edmond Jabès, nato al Cairo nel 1912, vissuto in Egitto, ebreo, stabilitosi in Francia, morto a Parigi nel gennaio del 1991. Guarda caso, il libro che le contiene, s’intitola Il libro della condivisione. In Italia è stato pubblicato dopo la morte dell’autore da Raffaello Cortina. Ecco il riassunto degli uomini come Ferrero siano di teatro, di sport, di lettere, di mondo, di fabbrica, non importa poi molto fatto in poche, semplici, ma esatte righe da Jabès: “Non domandarmi chi sono. La domanda stessa mi è incomprensibile. Dunque, da tempo ho smesso di porla. Domandami piuttosto dove vado. Dedurrai dal mio stupore che non me ne sono mai preoccupato”.
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Dello Zoo, dello specchio e di altre cose
di Michelangelo Pistoletto
conversazione con Ruggero Bianchi e Cristina Natta-Soleri, Cittadellarte, Biella, ottobre 2000
Ruggero Bianchi, Cristina Natta-Soleri Diamoci un punto di partenza, operativamente credibile, anche se cronologicamente gratuito: Per ora, per quest’ora, per questa volta ancora..., 1987. Piazza Carlo Alberto di Torino, una piazza trasformata, dominata dal monumento a Carlo Alberto. Il monumento originale viene trasferito tramite un monolite/specchio in un campo di granoturco. L’uso dello specchio deriva dall’impossibilità fisica di spostare il monumento. Si realizza in tal modo un intervento urbano, grazie al quale una piazza e il suo senso storico vengono trasformati. Come va letta un’operazione del genere? Come azione teatrale, come installazione, come percorso più o meno concettuale?
Michelangelo Pistoletto Richi ha fatto più di un intervento in questo stesso luogo.
Hai ragione. Nel 1985, in occasione di Torino Stupefacente, qui c’era già stato un altro suo intervento. Quello del Naufragio. In un altro momento, ma nello stesso luogo. Due anni prima.
Dal mio punto di vista, il discorso è questo: siamo all’interno di un passaggio da un’idea di teatro (in teatro, sul palcoscenico) ad uno spazio aperto in cui il teatro diventa una nuova concezione di scena, ma nello stesso tempo immobile scultura urbana.
Richi la definisce “drammaturgia della fissità”, in quanto situazione dove non c’è azione teatrale, giacché l’azione teatrale viene semmai ricostruita dagli osservatori. Nel caso specifico, la piazza ha un suo preciso referente storico, cioè le campagne di Carlo Alberto, le sue battaglie più o meno risorgimentali, la prima guerra d’indipendenza e così via. E qui, attorno al monumento “eroico” a Carlo Alberto, ci sono pertanto a vario titolo delle figure fisse, anche se raramente di performer. Soldati che segnalano una presenza “bassa”. Al contempo c’è però anche un processo di trasformazione dello spazio urbano che non ha nulla a che fare con la logica di Son et Lumière, ma è invece attraversamento di uno spazio dove lo spettatore o il passante (cioè, in ogni caso, un “pubblico” non necessariamente preparato all’evento e tuttavia abituato a leggere a modo suo uno spazio solcato più o meno in fretta e più o meno casualmente o distrattamente) riscopre o scopre in un luogo familiare valenze nuove e/o diverse. La modificazione del luogo determina infatti nel passante (o concorre a creargli dentro) la nascita di una storia.
È stranamente vero, giacché proprio in questo luogo, esattamente in questo spazio, ricordo che quand’ero bambino c’era regolarmente la Fiera dei vini. La facevano ogni anno e, in occasione di essa, ricostruivano tutta una scenografia. Tutto era proprio lì. C’era la Biblioteca Nazionale, non ancora ricostruita. C’era la sua facciata e, nella piazza, scene fisse e scenografie. E in questa struttura visiva, negli anni cinquanta, c’erano i diversi stand. Non c’era un teatro in senso proprio ma forse proprio questo, c’era un teatro di coinvolgimento diretto, comunque differente. Si entrava e si trovava di tutto, tutto finiva per essere teatro. La gente era coinvolta all’interno di uno scenario. Una sorta di “spettacolo esterno” molto efficace, dove la gente entrava e consumava, andava e veniva... Una “scenografia” non costruita su una struttura moderna di stand architetturali. Una situazione in larga misura immaginativa che forse ha significato, in qualche modo, un teatro vecchia maniera in un luogo destinato fin da allora a svilupparsi in un imprevedibile teatro moderno, o meglio in teatro nuova maniera. Come poi è accaduto. Me ne sono reso conto, quando ho visto, passando, il lavoro di Richi con le siringhe, Torino Stupefacente. Non è un caso, tra l’altro, che proprio lì, sull’angolo, ci fosse la Galleria di Sperone: un luogo molto familiare. Ho avuto, diciamo così, una sorpresa, nel vedere che la piazza riviveva alla luce di una nuova idea.
Come gioca, rispetto a questi tuoi ricordi, la componente dell’intenzione? La situazione che rievochi era strettamente finalizzata a un certo tipo di utilizzo, la Fiera dei vini. Cioè commercio, pubblicità, vendita ecc. La scelta di Richi si propone invece di trasformare un’area e il suo significato.
Allora c’era una situazione molto popolare. Una festa popolare che mi fa pensare anche alla Gru e a certe installazioni fatte ultimamente da Richi. Installazioni luminose, fatte in relazione a feste molto popolari, popolari per definizione, come quelle del Natale e del Capodanno. Cioè sempre in rapporto a qualcosa che ha una sua storia, un aggancio con il mondo, un aggancio con il pubblico che è, diciamo così, popolare. Per questo ci ritroviamo nella dimensione del vivere in qualche maniera la piazza, anche in relazione a qualcosa che va al di là dell’episodio artistico in senso specifico. Al di là dell’episodio “chiuso”, sia esso chiuso nel teatro o nei musei. Qui tutto è mirato a incontrare la gente negli spazi pubblici, nei luoghi dei suoi percorsi urbani quotidiani.
Che cosa intendi esattamente per “popolare”? Il trend folclorico, ad esempio di un sindaco torinese assai amato qual era Diego Novelli? Che rapporto c’è fra popolare e folclorico?
Per me il popolare non è il folclorico. Popolare è in primo luogo lo spazio dell’incontro. È questo che io intendo: un intervento in una zona pubblica, cioè cittadina, che provoca la trasformazione di quei segnali che tradizionalmente ci aspettiamo di trovare proprio in termini di folclore. In questa operazione c’è però sempre qualcosa di rubato: non già dal folclore ma dagli avvenimenti del mondo. Io, per esempio, con le mie prime operazioni, facevo per strada cose come Il principe pazzo o L’uomo ammaestrato. Cose che in un certo senso agganciavano... non già il folclore, un termine che a me non piace tanto... ma qualcosa che preferirei chiamare...
Cultura materiale?
Cultura popolare. Diciamo, ad esempio, i cantastorie. Qui, in termini di grande palcoscenico, possiamo ritrovare un po’ l’idea di cantastorie, o magari di “conta-storie”. Qui si raccontano storie. Si racconta la storia della barca e di ciò che le succede.
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La città delle muse
di Lucio Cabutti
Richi Ferrero inscena ragnatele giganti nello spazio della vitalità quotidiana: le mette in scena a tempo determinato, secondo i codici dinamici delle sue più varie esperienze in campo teatrale; ma le mette anche in opera, altre volte, secondo i codici statici delle opere d’arte da museo, delle installazioni e delle sculture. Le inventa così come presenze stabili, o almeno a tempo indeterminato, nell’ambiente di tutti i giorni. E le disegna come tetragone architetture grafiche di un ragno che avvalora l’aggettivo scientifico di “orbitelo”, perché allusivamente riflette nel nome stesso del proprio operare la struttura del mondo. L’etimologia di orbitelo allude, infatti, a un tessitore di solide tele in forma di orbis nel senso latino di circolo e globo, e riguarda la costruzione di trappole davvero solidissime che superano ogni immaginazione. In effetti, la resistenza di un filo di ragnatela è di 149 chili per millimetro quadrato. La sua solidità supera quindi quella del nylon usato dall’artista nella simulazione ingrandita, ma anche quella dell’acciaio: la tela dell’epeira crociata, per esempio, può catturare una preda pesante duemila volte il proprio peso.
Alla citazione del mondo dei ragni come metafora Ferrero approda attraverso le rotte d’altura e i naufragi simulati del suo repertorio visivo. Nella elaborazione del proprio lessico creativo frequenta infatti i siti dell’immaginario più ricchi di risonanze simboliche. E il ragno, con i suoi fili e la sua tela, ha una lunga storia naturale e antropica che spazia dal mito alla fobia, e che si riverbera anche nelle opere degli artisti. Le sue origini risalgono a quattrocento milioni di anni fa. La sua immagine come modello ottico, struttura psicofisica, archetipo, è dunque circa tre volte più vecchia dei dinosauri e cento volte più vecchia dell’uomo. E l’immagine della propria tela è per il ragno stesso un archetipo innato, operativo e formale, che non dipende da un apprendimento riferibile ai genitori: ragni giovanissimi tenuti isolati fin dalla nascita dimostrano in effetti, secondo gli specialisti del ramo, di sapere creare tele anche migliori di quelle degli anziani senza averne appreso la tecnica dall’esempio di altri.
Guardare all’identità degli aracnidi diventa un modo di confrontarsi con una ricca storia iconografica che comprende l’esperienza quotidiana e le osservazioni scientifiche, ma anche le proiezioni dell’inconscio e i segni della sacralità. Il vocabolario immaginale di Richi Ferrero non è nuovo a questo genere di ricognizioni nei meandri dell’immaginario collettivo e individuale. Il ragno è, fra l’altro, simbolo cosmico e liberatorio in India, demiurgo della creazione divina con il nome di Ananse in Africa occidentale, emblema della creatività umana punita da Atena nel mito di Aracne di Lidia in Grecia, figura allegorica dell’instabilità nella Bibbia e nel Corano, indicazione divinatoria in Camerun e in Perù, anima liberata dal corpo in Siberia, nocchiero delle anime su barche di ragnatela per i Muisca in Colombia, dio degl’inferi per gli Aztechi e dio creatore nelle isole Gilbert della Micronesia. Ragnatele e ragni d’artista costituiscono dunque anche un ottimo anello di connessione, come un vertiginosissimo link, per immergersi negli abissi della comunicazione codificata dal genere umano, e collegarsi ad ataviche o futuribili catene di associazioni emotive di immagini.
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Un cinema oltre la parentesi
di Stefano Della Casa
La fortuna (o sfortuna) di un festival è dovuta anche a elementi del tutto imponderabili, che sfuggono alla capacità di previsione anche del più attento degli organizzatori. Chiunque abbia partecipato alla seconda e alla terza edizione del Festival Internazionale Cinema Giovani, ad esempio, sa quanto abbia giocato negli anni del decollo di questa manifestazione la presenza in due piazze limitrofe allo svolgimento del festival stesso (piazza Carlo Alberto, piazzale Aldo Moro) di installazioni volute e create da Richi Ferrero con il doppio fine di stupire la città e di costituire un set cinematografico. Una delle due installazioni rappresentava una barca popolata di manichini e puntellata di siringhe (Torino Stupefacente); l’altra immaginava un disastro aviatorio. Entrambe erano schiaffeggiate da una luce irreale, da set (per l’appunto); nel caso di Torino Stupefacente è stato anche organizzato un concorso che ha visto tra i partecipanti alcuni nomi poi destinati ad avere un posto di rilievo nel cinema torinese (Mimmo Calopresti, Claudio Paletto, Gianluca Tavarelli). Ma al di là di questo rilievo, che è importante ma avrebbe potuto essere frutto di una casualità, è evidente che, se il festival di Torino ha conquistato fin da subito un solido posto nell’immaginario collettivo, lo si deve anche a una presenza parallela, autonoma ma coincidente che ha dato immediatamente il senso dell’evento.
In realtà, tutta la carriera di Richi Ferrero contiene punti di intersezione con il cinema, e in particolare con quel “nuovo cinema” che si diffonde in Italia a partire dagli anni ottanta, quando la definitiva diffusione delle tecnologie leggere (soprattutto, ovviamente, il video) abbassa i costi necessari per sperimentare le immagini in movimento. Come vedremo, esiste una specifica produzione che può essere definita cinematografica. Ma, scorrendo semplicemente la lunga serie dei suoi lavori teatrali, salta subito all’occhio la presenza di quattro nomi: Perlini, Bukowski, Fassbinder, Achternbusch.
C’è un filo che unisce questi autori: provenendo tutti dal teatro, si sono confrontati in tempi e in modi diversi con il cinema e nella loro traiettoria artistica il cinema non è stato una parentesi casuale ma un passaggio fondamentale destinato a lasciare un segno. In particolare, Fassbinder e Achternbusch sono stati due cavalli di battaglia dei cineclub italiani negli anni settanta: retrospettive a loro dedicate hanno fatto il giro della penisola e hanno ritagliato per i due autori una nicchia piuttosto consistente anche nella distribuzione d’essai. Menzionare i cineclub non è casuale, volendo commentare l’approccio al cinema da parte di Richi Ferrero. Quando, all’inizio degli anni settanta si afferma a Roma il Filmstudio presto imitato in tutta Italia (nella capitale nascono anche il Politecnico e L’occhio, l’orecchio, la bocca, a Torino il Movie Club, a Pisa l’Arsenale, a Trieste la Cappella Underground, a Milano l’Obraz), si inverte una tendenza che fino a quel momento era stata maggioritaria nella critica italiana. Parlare e scrivere dei film, animando dibattiti scritti o verbali, era stata fino a quel momento l’attività di gran lunga più diffusa nella critica cinematografica. I cineclub rovesciano tale assunto: preferiscono cercare di riscrivere la storia del cinema non attraverso la saggistica ma mostrando i film, privilegiando l’oggetto cinematografico all’affabulazione sul medesimo. In questo modo si scopre, ad esempio, perché Jean-Luc Godard abbia dedicato il suo film d’esordio alla Monogram Pictures, casa di produzione di b-movies hollywoodiani; oppure perché il Free Cinema tanto esaltato dalla critica di sinistra risultasse sopravvalutato se paragonato ai contemporanei horror prodotti dalla Hammer; o ancora perché i melodrammi di Raffaello Matarazzo con Nazzari e la Sanson contenessero un tasso di cinema non inferiore ai contemporanei melodrammi di Visconti che avevano acceso il dibattito sul neorealismo.
Insomma, se Ferrero sceglie Fassbinder compie un’implicita scelta di campo, preferisce il cinema inquieto rispetto al cinema dibattuto. Del resto, per scendere sul ricordo personale, il primo incontro con il Granserraglio è per chi scrive avvenuto nel 1976 a Villardora, quando era stato organizzato il contorno di messa in scena per Enzo Maolucci che interpretava un lungo, memorabile concerto di rock americano. E conoscevo il Granserraglio perché la sua sede era in corso San Maurizio 27; un indirizzo che anch’esso, nella Torino di quegli anni rappresentava una precisa scelta di campo.
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Invenzione e memoria: i Fuochi di Richi
di Mercedes Viale Ferrero
Se si volesse ricercare il “perché?” degli spettacoli di Fuochi di Richi Ferrero, si potrebbe trovare una risposta molto semplice: perché nel gusto, o se si preferisce nell’ansia di sperimentazione artistica che lo distingue, Richi desiderava cimentarsi anche con questo “genere” tradizionale, rivisitandolo in forme e percorsi innovativi. Ma sarebbe una spiegazione parziale e superficiale. Infatti non tanto si trattava di rinnovare uno spettacolo troppo spesso replicato quanto di risalire alle sue radici storiche e simboliche, insomma di ritrovare le più profonde motivazioni dei Fuochi intesi come segni dimostrativi delle capacità dell’ingegno umano, come una sorta di magia naturale. Oggi non riusciamo quasi più a rappresentarci quale fosse l’oscurità della notte in città prive di illuminazione pubblica, in cui le uniche luci artificiali erano quelle delle candele, delle lucerne, delle fiaccole; di conseguenza non riusciamo a raffigurarci appieno quale straordinario effetto avesse, in occasione di qualche evento eccezionale, la chiarità notturna prodotta dalle luminarie e dai Fuochi. Era un sovvertimento dell’ordine naturale delle cose e dunque un segno del potere di chi aveva l’autorità di disporre, con una parola di comando, tale sovvertimento. I Fuochi e le luminarie avevano la facoltà di fermare il corso del tempo e di provocare la metamorfosi degli elementi mutando in giorno la notte, trasformando la città in un teatro di effimeri splendori. Ma soltanto ai Fuochi apparteneva la capacità di superare i vincoli dello spazio coll’essere contemporaneamente visibili in un vastissimo raggio territoriale e godibili da una moltitudine di persone tale che nessun teatro sarebbe stato in grado di contenere. Li si potrebbe definire “lo spettacolo” per eccellenza, proprio in quanto l’etimo della parola rimanda al latino spectare, vedere. Ma quale tipo specifico di visione offrono? Per quali scopi? Oggi, qui sta forse il nodo da risolvere: in altri tempi i Fuochi potevano servire ai programmi festivi, volta a volta, di un sovrano, per festeggiare una allegrezza dinastica; di una autorità religiosa, per esaltare una ricorrenza sacra; di una amministrazione civica per affermare la propria autonomia istituzionale. Ma oggi a quale programma sarebbe opportuno collegarli? Si potrebbe (come per lo più avviene) risolvere lo spettacolo dei Fuochi in pura, edonistica visibilità; ma percorrere questa via significa rinunciare ad una soluzione significativa, ad una scelta meditata. Per Richi Ferrero, al momento di affrontare lo spettacolo dei Fuochi, non mancavano i problemi ma non mancavano neppure gli stimoli alla ricerca.
Riandando ora alle sere del 24 giugno 1990, 24 giugno 1991, 24 giugno 1992 e 11 giugno 1994, inquadrandole con un certo distacco di tempo ma con sempre vivida permanenza dell’immagine nella mente, si può riassumere la loro qualità in due parole: memoria e invenzione. La memoria: indubbiamente Richi Ferrero ha tenuto conto di tutto quanto aveva preceduto le sue creazioni, cioè di una storia spettacolare nella quale durante i secoli si era riflessa la vita cittadina, in un mutevole caleidoscopio di situazioni politiche, di vicende civiche, di rapporti sociali, di gusti artistici, di usanze locali. I luoghi stessi dove i moderni Fuochi erano tirati incitavano a riprendere le fila delle trame antiche, lontane ma non perdute, testimoniate da immagini, descritte in relazioni, documentate nelle carte d’archivio. Dal 1990 al 1992 gli spettacoli si svolsero sul Po, cioè in quella tra le sedi deputate delle festività torinesi che si distingueva dalle altre (le piazze del Palazzo di Città, del Castello, di San Carlo) per lo scenario naturale e panoramico. E che, per tale ragione, era stata sempre privilegiata quando la festa ricercava effetti grandiosi, assumeva un carattere di racconto per immagini e figure.
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Se le idee sono luminose
di Sergio Jaretti
Ho conosciuto Richi Ferrero personalmente soltanto poco tempo fa, nel 1998, in occasione della mostra urbana “Luci d’Artista” a Torino, quando con Pier Giovanni Castagnoli e Stefano Valezano mi occupavo del programma di inserimento dei lavori degli artisti nel contesto della città1.
Questo mi ha dato modo di collegare alla sua persona altri lavori visti nel corso degli anni come eventi staccati. E scorrendo ora in sequenza ordinata l’ampio, bellissimo materiale fotografico del suo archivio e rivisitando i suoi lavori sembra persino banale rilevare come l’uso della luce sia l’elemento protagonista, trasversale rispetto a tutta la sua attività.
Classicamente un saggio dovrebbe procedere secondo le linee collaudate del tratteggiamento della figura dell’artista, distinguere un tipo di lavoro da altri generi, delinearne cronologie e storia, coglierne conseguenze e invenzioni, confrontarne gli esiti con quelli di altri artisti ecc.
Confesso la mia difficoltà. Forse perché non è questo il mio mestiere. Ma forse anche perché nel suo personaggio si intersecano ruoli diversi, secondo un procedere antonelliano di imprenditore e promotore di se stesso, di inventore di tecniche e di forme, di esecutore manuale di parti. Una sorta di capocomicato, trovarobato, recita, auto-osservazione da spettatore, di cui non so quanto l’ordinata successione di cronologie e generi potrebbe dare conto. Tanto meno di un personaggio così moderno parola pericolosissima oggi! in quel suo studio-laboratorio-officina, quasi solitario pur nel gran numero di collaboratori e colleghi che in ogni lavoro coinvolge; ma concettualmente così in sintonia con quel popolo giovane di partite Iva + cellulare + pc portatile che oggi sta cambiando faccia e natura del lavoro creativo.
Allora niente schema classico, cronologie e tutto il resto, ma tentativamente la ricostruzione di un procedimento progettuale, come per layers sovrapposti, di modelli storici di riferimento, tendenze attuali e lavori rispetto a cui la sua invenzione smargina e si allarga molto al di là degli stereotipi.
Non si potrebbe in poche pagine passare in rassegna tutto ciò che di significativo si vorrebbe ricordare della sua attività, che ha accettato, e vedremo come, anche la sfida della labilità materiale di quella parte del suo lavoro del suo mettere in scena momenti di dramma figurale che durano esattamente il tempo della loro visualizzazione. Questa è forse la difficoltà maggiore: tutto ciò che non si è potuto vedere dal vivo e mai più si potrà e che rende proprio per questo più partecipi di quel non più esserci.
Ma c’è e si accentua ora, mi sembra, da parte sua l’interesse per la durata, per qualcosa di più permanente, che non si debba soltanto cogliere nell’attimo in cui appare. E passare dal teatro-teatro alla scena urbana.
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Un’esplorazione intorno all’idea di museo
di Andrea Terranova
En conséquence, le musée a, entre autre, pour fonction d’être un lieu à caractère sacré où, à travers la présentation des objects, se prolonge la volonté de se survivre des générations passées.[1]
Zev Gourarier, 1984
1. Ecco, seppur racchiusa nel breve spazio di una citazione, la chiave concettuale per comprendere quello che, a mio modo di vedere, è il percorso maestro nell’evoluzione multidisciplinare di Richi Ferrero. Un sentiero teoretico che si può individuare in nuce sin dall’installazione urbana Per ora, per quest’ora, per questa volta ancora... (1987) e che, transitando attraverso l’esperienza del Museo della Sindone (1998), assume piena consapevolezza con il Museo del Forte di Exilles (2000), l’allestimento che costituisce la più recente sfida progettuale del poliedrico artista torinese: un’esplorazione intorno all’idea stessa di museo[2] in grado di condurre ad una nuova concezione del medesimo. Per Ferrero, il museo diventa un teatro delle cose, un palcoscenico che rappresenta altri mondi in grado di comunicare emozioni vitali ed esperienze possibili; un ponte tra le generazioni; un monumento a modi di vita scomparsi, a forme d’intelligenza e d’attività divenute superflue; un luogo di comunicazione con la vita passata; una macchina del tempo; un contenitore dinamico d’immaginari individuali e collettivi.
Ferrero attualizza e mette in atto quanto auspicato da Zev Gourarier: là dove l’autorevole direttore del Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari di Parigi afferma di riconoscere all’istituzione museo il compito di farsi luogo di sopravvivenza degli uomini, attraverso i beni materiali che li ricordano, oltre la morte, luogo dei loro valori simbolici e del loro immaginario, come una sorta di tempio del mondo laico. Aspetto questo che ancora oggi, a distanza di diciassette anni dalla sua formulazione teorica, ha un valore destabilizzante rispetto a tutta l’impostazione educativa e istituzionale della museografia moderna, in quanto ribalta la scena comunicativa a favore di chi ha salvato sensatamente le memorie (come nel caso della collezione delle divise del Museo di Exilles, grazie alla comune passione di Raffaele Natta-Soleri e di Ernestino Chiappa)[3], e fa del museografo un custode e interprete di memorie altrui, più che un programmatore di messaggi educativi.
2. Per meglio comprendere il senso e la portata di tali affermazioni, è necessario descrivere i tratti essenziali dei tre allestimenti citati.
Per ora, per quest’ora, per questa volta ancora... (1987) [4]
Nel pieno centro di Torino, in piazza Carlo Alberto, dinanzi a quel tempio della memoria artificiale che è la Biblioteca Nazionale, Richi Ferrero mette in scena la ri-memorazione di una battaglia sabauda. Leggiamo nelle note di progetto: “a quel re (Carlo Alberto di Savoia), congelato nel suo bronzo, perché all’ingiuria si disperda, regaliamo l’emozione della sua ultima battaglia: ‘per ora, per quest’ora, per questa volta ancora’ fruscii di uomini tra il granoturco, odore di guai e polvere da sparo, bagliori del fuoco nemico”. Il theatrum memoriae è costituito inopinatamente da un frammento di campagna piemontese trasportato nel tempo e nello spazio (Novara 1849 - Torino 1987), dotato di 12.000 piante di granoturco disposte su un’area di 1500 m2; in mezzo ad esso svetta un enorme, kubrickiano, monolite di specchio per riflettere l’immagine del sovrano sabaudo: per far riflettere sulla condizione umana, sulla guerra, sulla morte, sulla memoria, sull’epos delle classi popolari e subalterne...
“Ogni sera un nuovo soldato sporco, stanco, depresso, sbuca tra le piante: è l’esercito piemontese”: non c’è memoria museale senza l’epos del mondo dei vinti. Tuttavia se il museo deve ancora conquistare, per essere uno spazio di iniziazione, quell’atmosfera che ancora oggi si respira di fronte al Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, di fronte all’installazione di Ferrero si è potuta esperire quell’entrata in scena e l’essere state fuori scena delle masse, che si legge in tante storie di miseria e di emigrazione, che si coglie nelle foto d’epoca quando le si voglia leggere con un’attitudine ed una disponibilità all’ascolto.
Continua Ferrero: “Specchi, piccoli, grandi, luci e tutto si moltiplica, cambia, dieci, cento cavalli, cento mille soldati prima qua, poi là, si rincorrono e lui nel mezzo per la sua ultima guerra. E... la gente guarda, finalmente guarda”: una moltiplicazione non prevedibile dell’immagine del re guerriero. Un modello infinito composto da moduli eternamente differenti; sequenza ininterrotta di punti di vista. Un allestimento volutamente inutile, “squisitamente inutile”: come un “gioco”, come disse con alterigia un critico teatrale indigeno. Anche la statua equestre di Carlo Alberto, classica, banale perché consumata dal ritmo della storia, è segno che l’immagine offerta oggi dal monumento non ha valore se non in quanto intervallo; interruzione d’un flusso continuo che esige da noi, per poter essere, una pausa: nel camminare, nel vedere... L’allestimento di Ferrero si pone a metà tra il sismografo sensibile ai mutamenti della vita esterna ed il caleidoscopio, sempre mutevole, rappresenta una nuova possibilità, per i momenti e per le installazioni d’arte negli spazi pubblici, di imporsi all’occhio senza scivolare sullo sfondo; ma solo perché tale atto di scivolamento (sul fondo) è già parte integrante del mutamento. Lo sfondo, in realtà, anche in questo caso mantiene un’immensa forza d’assorbimento. E la possibilità di emergenza dell’allestimento consiste proprio nel suo lasciarsi perfettamente assorbire.
Il Museo della Sindone (1998) [5]
Il Museo della Sindone, fondato nel 1936 e ristrutturato in occasione dell’Ostensione del 1998, ripercorre le tappe della storia del Sacro Lenzuolo e delle ricerche scientifiche che hanno indagato l’immagine riportata su di esso.
Come ha affermato Ferrero: “la principale difficoltà incontrata nel progettare questo lavoro è stata ovviamente l’assenza dell’oggetto cardine della trattazione che, unita alla presenza di un percorso espositivo costituito più da testimonianze che da reperti, ha determinato la scelta di coniugare l’aspetto scientifico didattico con quello evocativo-emozionale”. Nei fatti, l’allestimento ruota attorno a due “centri vuoti”: Cristo e il suo sudario (conservato, com’è noto, nel Duomo di Torino) assumendo come costitutive le immagini (moltiplicate) dei due assenti che, nel loro moltiplicarsi, assumono una valenza ontologica inaspettata. Con la Sindone in qualche modo, ci suggerisce Ferrero, si apre l’età dell’immagine, il paradigma della modernità: quell’epoca in cui la forma dominante dell’essere sembra ormai aver assunto i contorni dell’immagine; ciò che “è”, nel mondo attuale, esiste in primo luogo in quanto “immagine”.
Così quest’allestimento sovverte programmaticamente uno dei valori originari della tradizione museale classica: il valore della presenza. Presenza: nel senso della materia tutta dispiegata qui ed ora, ma anche come evidente opposizione ad un’assenza. È qui che si avverte, soprattutto, un punto di discontinuità, catastrofico, generato dal progetto di Ferrero: il fatto che l’allestimento sembra qualificarsi attraverso una continua oscillazione tra presenza stabile - memoria di ciò che è stato e presenza-assenza dal carattere fluttuante, che mette in relazione di simultaneità le tre dimensioni temporali del passato-presente-futuro; una prospettiva che contempla simultaneamente “memoria” (l’avvenuto) e “immanenza” (ciò che avverrà e/o sta avvenendo), non risolvendosi mai e assumendo questo aspetto dinamico nella costruzione del senso.
Ma (forse) c’è di più: nel progetto di Ferrero assume una centralità costitutiva “il tentativo di rendere la sofferenza di un uomo crocefisso attraverso l’iconografia pittorica dei secoli, che l’intervento artistico ha frammentato, lacerato, drammatizzato sulle architetture del luogo servendosi di elaborazioni al computer e di sofisticati proiettori usati per la prima volta all’interno di un sito museale”.
Ne scaturisce una dichiarazione programmatica e, al tempo stesso, un ripensamento sul ruolo etico del progettista museale: un professionista in grado di “abitare”, in chiave di responsabilità morale, le immagini; un soggetto capace di dimorare nell’interzona delle immagini celibi e non, reali e virtuali, in grado di accoppiarle, sovrapporle, farle mutare di segno; un (post) moderno Virgilio, una guida responsabile in quella foresta labirintica e confusiva costituita da vecchi e nuovi trucchi elettronici, in grado di condurre verso un (ultimo?) compito “politico”, quello di distinguere tra queste immagini-effetto, riconoscerle e farle amare tutte. Riconoscerle già intorno a noi e non solo davanti.
Museo del Forte di Exilles (2000)
L’opus maius di Richi Ferrero: a Exilles nel cuore di una fortezza alpina secolare, utilizzata sino al 1946 per usi militari trovano luogo due allestimenti differenti ma complementari: a) Il museo delle uniformi delle truppe alpine, ubicato nei locali del “Fronte delle Cannoniere”[6]; b) Il Forte di Exilles. Architettura militare nelle alpi occidentali, posto nelle sale del “Diamante”[7].
a) La prima installazione, basata su un fondo documentale di quarantaquattro reperti di proprietà del Museo Nazionale della Montagna, è organizzata secondo un percorso che partendo dall’esposizione delle uniformi (mediante surreali manichini ricoperti di scaglie di pietra frantumate dalla roccia con cui è costruito il forte) si conclude con sei “teatri della memoria” (ricavati in altrettante camerate del forte e volti a fare comprendere al pubblico “chi erano e cosa pensavano gli uomini che portavano la divisa”) centrati su chiavi tematiche ambientali: la roccia, il ferro, il ghiaccio, la nebbia, la neve, la notte. Simmetricamente, la collezione delle divise propone una scansione temporale articolata in sei momenti storici distinti: a) 1880-90; b) 1900; c) 1910; d) 1920; e) 1930-40; f) 1970-90.
Di fatto questa “azione parallela” determina una lettura peculiarissima del “secolo breve”, di cui Ferrero sembra riconoscere l’abissalità e la vertiginosità, rifacendosi ai grandi maestri dell’arte del Novecento. La chiave retorico-stilistica proposta dall’artista torinese è sospesa tra surrealismo e iperrealismo: sincronica, allucinante e allucinata, enigmatica così come il Grande vetro (1926) di Marcel Duchamp e La mostra delle atrocità (1970) di James Ballard. Ne consegue una “mostra” (delle atrocità della guerra e dell’esistenza) esauriente e casuale come un quadro di René Magritte, pornografica come può esserlo un documentario scientifico (con la sua ossessione di “realtà”), e raccontata con la perizia asettica di un chirurgo che opera sul “tavolo di dissezione” (André Breton). Non a caso, la traccia di base del percorso delle divise è tratta da un ponderoso lavoro di studio “anatomico” sulle fogge e sui colori degli indumenti militari compiuto da Ernestino Chiappa: trecentodiciotto tavole acquerellate a colori nel corso di ventisei anni di vita. Da questo monumento cartaceo, “magnifico e ossessivo”, Ferrero estrae quarantaquattro silhouettes in scala 1/1, che illustrano le principali “oscillazioni del gusto” e conseguentemente, con valore di sineddoche, i vezzi, i fermenti, le tensioni, le illusioni di una parte della società del nostro paese negli ultimi cento anni.
Il risultato complessivo è marcatamente sperimentale, e fortemente segnato dal retroterra teatrale di Ferrero; da cui, tuttavia, si emancipa mediante una scrittura per immagini squisitamente visivo-cinematografica (denominata da Ferrero “drammaturgia della fissità”) che conduce a risultati del tutto inediti (e al tempo stesso straordinariamente fecondi) sotto il profilo della comunicazione museale.
b) L’allestimento dal titolo Il Forte di Exilles. Architettura militare nelle alpi occidentali è strutturato in otto settori espositivi. I primi sette illustrano, con gran dovizia di modelli lignei, disegni, carte e documenti, la corografia del luogo e l’evoluzione (tipologica, strutturale e architettonica) della fortezza militare nel periodo compreso tra la sua fondazione (avvenuta nel secolo xvi) e il secolo xix. La didascalicità dell’apparato documentale viene “depotenziata” ricorrendo ad uno stratagemma ironico ed elegante una “quadreria” dei sovrani sabaudi volutamente povera e dissacrante che ricorda le invenzioni pop, “contraddittorie e complesse”, di Robert Venturi. L’ottavo settore si presenta come un vero e proprio sancta sanctorum secolarizzato, uno spazio di raccoglimento e meditazione al termine di un articolato e denso percorso di visita, ove si può osservare in “religioso” silenzio l’ultimo, importante, concio del circolo ermeneutico organizzato da Ferrero: un video dal titolo Forte suggestione, realizzato in collaborazione con Claudio Paletto. Nel filmato non ci sono attori: il Forte di Exilles, un set naturale dal fortissimo impatto visuale, non ha bisogno di aiuti per assurgere al ruolo di protagonista. Come l’architettura del luogo è una sommatoria di schegge, prodotto di interventi differenti nel tempo e nello spazio, non riconducibili ad una unità formale e stilistica, così il film vede una equivalente frammentazione dell’unità di luogo e di azione che si risolve in una labirintica costellazione di microscene. E all’interno di esse, quasi a rafforzare questo concetto, la macchina da presa si muove pochissimo, non vi sono carrelli: il filmato sembra diventare così una inesausta collezione di “fissi”, di fotografie, animata soltanto da una voce fuori campo che parla di un luogo sospeso, un’isola, il centro di un corpo estraneo, uno spazio-tempo teatro di esperienze singolari. Una mescolanza di peculiarità e condanna che qualifica l’identità del Forte di Exilles e dei suoi abitanti.
Note
1 Z. Gourarier, Le musée entre le monde des morts et celui des vivants, in “Ethnologie française”, xiv, n. 1, 1984.
2 Come è noto, l’idea di museo moderno si precisa nel corso del Settecento: nell’epoca, cioè, in cui raccogliere, e tassonomizzare le forme del sapere diventa un obiettivo primario. Curiosamente, se si pensa alla vistosa evoluzione riscontrabile in altri tipi edilizi di rappresentanza borghese, l’impianto tipologico e la concezione stessa di museo non mutano, in modo significativo, per oltre duecento anni. Conservare ed esporre sembrano essere le due uniche discriminanti di ogni impianto museale. Un cambiamento di paradigma si registra nella seconda metà del nostro secolo grazie ad un’accelerazione impressa dal sistema tecnologico-scientifico, nonché ad una decisiva variazione delle coordinate culturali, anche legata alla crescita esponenziale delle performance dei computer, dei mezzi di riproduzione televisiva e cinematografica del reale. Oggi, non a caso stante l’enorme diffusione dei pc, sono tornate in auge formule linguistiche come ad esempio: “estensione degli spazi dell’esperienza” che hanno avuto nascita e dimora negli anni sessanta: un momento in cui l’emancipazione poteva essere “abitata” grazie ad un attraversamento di soglia (le “porte della percezione”) non solo tramite l’uso di allucinogeni o training fisico-mentali, ma anche grazie alla natura protesico-espansiva dei media, nel senso preconizzato da Marshall McLuhan. Così, non è infrequente trovare negli anni a cavallo del ’68 in Europa e negli Stati Uniti, le tracce di un pensiero che qualifica il museo come ambito pubblico di esplorazione e conoscenza in progress, nel senso di una riappropriazione dei percorsi di apprendimento e conoscenza da parte di un soggetto che si emancipa dal suo secolare ruolo passivo divenendo protagonista e interprete; un soggetto che può così sviluppare la capacità di entrare in relazione con lo spazio del museo luogo fisico e mentale rendendo dinamico (in una forma prima impensabile) il patrimonio esposto. Last but not least, come aveva intuito Walter Benjamin già nei primi anni trenta, l’azione dei media modifica profondamente la natura (il dissolvimento dell’alone auratico) e la percezione dell’opera d’arte e del reperto, spettacolarizzandoli e disponendoli su un piano di consumo di massa, sconosciuto sino ad allora. In questa prospettiva culturale, va da sé che il museo inizi timidamente nel corso degli anni settanta e dei primi anni ottanta ad aprirsi, a dispiegarsi in modo tale da “giocare” con la curiosità intellettuale del visitatore (con i suoi strumenti culturali, con i suoi percorsi formativi), consentendo una personalizzazione dell’esperienza di visita.
3 Cfr. A. Audisio, C. Natta-Soleri (a cura di), Alpini. Figurini storici di Ernestino Chiappa, Museo Nazionale della Montagna “Duca degli Abruzzi”, Club Alpino Italiano - Sezione di Torino, Torino 1998.
4 Allestimento temporaneo, Torino, piazza Carlo Alberto, 15 settembre - 15 ottobre 1987. Ideazione e direzione: Richi Ferrero. Direzione generale: Gianna Franco. Committenza: Città di Torino, Assessorato alla Cultura; Regione Piemonte, Assessorato alla Cultura.
5 Allestimento permanente in occasione dell’Ostensione della Sindone nel 1998. Torino, via San Domenico 28, inaugurazione avvenuta il 15 aprile 1998. Progetto museale: Marina Gariboldi e Richi Ferrero. Realizzazione immagini: Claudio Paletto. Committenza: confraternita del SS. Sudario.
6 Direzione scientifica: Francesco Barrera, Pier Giorgio Corino. Ideazione, progettazione e coordinamento: Richi Ferrero. Progettazione delle strutture espositive: Marina Gariboldi. Committenza: Museo Nazionale della Montagna, Torino.
7 Direzione scientifica: Pier Giorgio Corino. Ideazione, progettazione e coordinamento: Richi Ferrero. Progettazione delle strutture espositive: Marina Gariboldi. Committenza: Museo Nazionale della Montagna, Torino.
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Dialogo sul Gran Teatro Urbano
di Richi Ferrero con Ruggero Bianchi
Ruggero Bianchi Richi Ferrero: fonti, matrici, premesse di un’attività che ormai ha una trentina d’anni.
Richi Ferrero Giusti, giusti: 1971- 2001. Nel 1971 avevo vent’anni e frequentavo una cantina-taverna fuori norma, straordinaria, che ha segnato il primo vagito internazionale di questa città: lo Swing Jazz Club di via Botero. I vagiti erano di Dexter Gordon, Johnny Griffin, Lou Bennet, Chet Baker, Gato Barbieri. Torino apriva un occhio! È allo Swing che ho incontrato Mariano Meli, indimenticabile amico, mio maestro. Con lui c’erano molti attori dello Zoo, compagnia performatica voluta da Michelangelo Pistoletto.
Il Nord Europa, l’Olanda, l’India, l’Oriente, erano le mete del nostro vagabondare e fu al Mikery, storico country-teatro nei dintorni di Amsterdam, che il cuore del primo branco teatrale d’avanguardia torinese esaurì la sua prima esperienza e cessò di battere. Dalle ceneri dello Zoo, nella cantina di via Botero, nacque il Granserraglio. Era la primavera del 1971. Il neonato sodalizio era tra politica e Beat Generation, i modelli erano il Living Theatre, i Bread and Puppet, il Café La Mama, vere potenze espressive di quell’epoca. In quella stessa primavera, l’esordio con la prima azione scenica dal titolo Teatro Scultura, nella Galleria Triade del pittore-performer Giorgio Ciam. Un’azione scenica ancora fortemente “zoologica”, “pistolettiana”. Come sai, in quel Teatro Scultura c’era già la vocazione dello spostamento del teatro verso nuovi scenari.
Tu parli degli anni settanta e metti insieme Swing, Bread and Puppet, India, Beat Generation ecc. Dai un quadro globale di una situazione che allora non era molto chiara, perché era contraddittoria, con tendenze divergenti. Hai parlato anche dello Zoo di Pistoletto. Ma erano i tempi in cui, se ricordo bene, a Pistoletto veniva associato il nome di Merz, sia pure naturalmente nella diversità di campo. Si cominciava forse a parlare di arte povera, di arte concettuale. C’erano esperienze che erano tra loro profondamente contraddittorie.
Sì, però quella era un’altra generazione: quando parliamo di Pistoletto, di Merz, di arte povera, del nucleo di Torino, di Sperone, parliamo di una generazione che è immediatamente precedente alla mia: io vengo subito dopo, a ruota; ne vengo a far parte, ma sono il più giovane, il fratello minore, se non il figlio. Era poi una situazione relativamente confusa, nel senso che in quel momento c’era il grande movimento della Beat Generation, che di fatto si confrontava con la fase politica: due aspetti in sostanza complementari, compensativi. Noi lasciavamo le caserme e non andavamo a fare il militare, lasciavamo le scuole e non prendevamo il diploma, lasciavamo la famiglia perché non ci riconoscevamo nei valori cattolici, della patria e dell’eroe, c’eravamo rotti i coglioni di appartenere ancora, sul piano educativo, alla generazione che ci precedeva, cioè alla generazione di mio padre che poi è la generazione dei “Merz”.
Quindi l’abbandono della famiglia, della chiesa, la fuga dalla caserma, l’abbattimento delle frontiere… per noi viaggiare era un atto creativo, perché le frontiere le avevamo già cancellate dalla testa. L’Europa l’avevamo già unita, avevamo già unito il mondo, infatti era un movimento mondiale, non era né italiano, né europeo. In questo senso si andava in India. Quando dico che andavamo in India in autostop, è perché eravamo centinaia di migliaia di persone che da tutto il mondo andavamo in India in autostop. Così le cose fanno il loro corso e diventano storia. L’abbattimento delle formule era fondamentale, in quegli anni. Del teatro si rigettava il testo, si rigettava la drammaturgia intesa come svolgimento di una pièce con un inizio e una fine, si rigettava la regia, il monopolio del regista: in poche parole si rifiutava il teatro borghese. E formidabile è stato il nuovo corso, i nuovi tentativi, la ricerca.
Era però un momento in cui per certi versi alcuni giochi erano già fatti. Per esempio, in Italia c’era un Quartucci che veniva dal teatro universitario, c’era un Carmelo Bene, c’era un Leo De Berardinis che nasceva, c’era allo Swing Beppe Bergamasco che faceva cuocere le frittate (forse non aveva ancora scoperto Barba), c’era il primo Bread and Puppet con Simple Light, la scoperta della luce. C’era un Living Theatre che lavorava ormai da alcuni anni, c’era Mario Ricci che seguiva una tendenza chiamiamola viennese o austriaca. C’erano già delle differenze. Tu giustamente sottolinei che Pistoletto e Merz sono di una generazione precedente: ma questo non esclude differenze di risposta. Lo stesso andare in India, per esempio, non era di tutti. Tu ti collochi nella Beat Generation, ma la tua era una certa scelta, non una scelta globale di tutti gli artisti. All’interno di questo movimento, che era a suo modo compatto ma aveva all’interno grosse differenze tecniche, formali, artistiche, di canali estetici, come ti sei inizialmente collocato?
Quando Mariano Meli mi ha proposto di fondare con lui quello che sarebbe stato il Granserraglio, ho accettato per dare un contributo musicale agli spettacoli che si intendevano fare. Questo mio ruolo iniziale è durato poco, in brevissimo tempo ho iniziato anche a muovermi sulla scena. Erano anni in cui le cose nascevano per occasione, c’erano già delle commistioni tra i generi: ti avvicinavi ad una realtà e poi ti ritrovavi a sostituire qualcuno, non avevi mestiere, non avevi esperienza. Era la nascita di un fenomeno con tutte le sue pochezze, con i limiti oggettivi di un fare che avremmo imparato strada facendo.
In che senso gioca la rifondazione di un linguaggio, dei canoni e delle regole del fare teatro e del fare arte? Fin dall’inizio tu ti muovi infatti su un terreno che in realtà è di “intermedia”.
Di fatto ci confrontavamo con il teatro borghese, il cosiddetto “teatro di parola”, l’estetica della parola, la parola corretta, ben detta... a noi la retorica della parola non interessava, piuttosto Brecht e Beckett, dove, per ragioni diverse, il teatro di parola era già scardinato. Iniziava un nuovo corso, cambiavano le regole, certo è naturale, stava cambiando tutto e molti teatranti e drammaturghi marcavano il tempo, così il teatro di movimento, di visione, di mutamento si apriva la sua strada.
La scelta fondamentale è stata quindi quella dell’agire in teatro in senso lato, contro la parola drammaturgica.
Contro quella che era stata fino a quel momento la condizione di fruizione dello spettatore, vale a dire: il teatro all’italiana, il pubblico seduto in platea a subire in qualche modo quello che con il biglietto comprava, parola compresa.
Noi questo abbiamo rotto. Di qui è nata la necessità di fare i testi collettivi. Volevamo scardinare la paternità assoluta della firma unica che si riferiva in qualche modo ad un capo, vuoi perché era capace di scrivere, di dirigere o di recitare. Eravamo alla ricerca di quella orizzontalità che non avremmo mai trovato, tantomeno dopo, con la mortificante e faticosa esperienza delle cooperative. D’altro canto quando modifichi una consuetudine, soprattutto artistica, è chiaro che poi hai anche dei risultati molto positivi. Vedi, come dici tu, in quegli anni Carmelo Bene, Ricci, Leo.
Questo presuppone però il discorso del lavoro collettivo, cioè del riconoscimento di abilities differenziate, che però convergono e magari cambiano, mutano, si trasformano. Io, per esempio, posso nascere come elemento musicale e poi diventare regista e via discorrendo. Vogliamo quindi parlare di questo rapporto tra individuo e collettivo?
È semplice, vivevamo insieme. Era importante dormire, mangiare, svegliarsi insieme, fare il caffè, distendere e arrotolare i sacchi a pelo, sentirsi uniti e unici come gruppo. Circondati da cani come se fossero figli, le macchine scassate e immortali, la musica come collante del nostro fare. Cominciare la giornata inventando un’azione, un gesto, una sequenza, idee su idee, presupposti di capacità che nel tempo si sarebbero confermate. Poi viaggiare, allargare insieme le nostre esperienze. Non si può certo prescindere da ciò che di incredibile stava accadendo: il Sessantotto, la Beat Generation, la globalizzazione di un pensiero generazionale straordinario e utopico che avrebbe lasciato il segno, e che segno!
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